E’ sconfortante assistere in queste settimane alla celebrazione di un gruppo mediocre, emulativo, costruito a tavolino come i MANESKIN da parte di tutti (o quasi) i media italiani.
A fronte del nulla creativo, del nato morto, del già mille volte sentito, in Italia c’è chi si spella le mani in applausi, infiorettando recensioni e articoli con iperbolici giudizi e magniloquenti metafore.
Nel fenomeno, ha senz’altro un ruolo determinante la stolta mania di alimentare quel falso patriottismo da ampolla sul Po rispolverato per iniettare dosi di doping nazionalista nelle vene dei cittadini sonnolenti, per intenderci, giustificato dalla vittoria all’Eurovision e dalla presenza in classifica in molti paesi dell’UE (Inghilterra inclusa!); c’è anche, com’è ovvio, la spinta di tutto il carrozzone del marketing (etichetta, agenzia, promoter, giornalisti prezzolati, piattaforme Web…) che strabuzza gli occhi in un momento di forte crisi del mercato discografico; ma, soprattutto, c’è l’endemica, certificata abissale ignoranza della storia della popular music e delle basi elementari di analisi musicale, quelle che si insegnano alle scuole secondarie, da parte di pubblico e testate giornalistiche.
Mi ha colpito, in particolare, come questo gruppo abbia reinterpretato un hit anni Sessanta come “BEGGIN’” dei FOUR SEASONS, lanciato nel 1967.[1] Un pezzo che per le sua dirompente, drammatica melodicità è stato riproposto più volte, anche in italiano (“Prega”, cantata da Riki Maiocchi nel ‘67) [2].
A parte la versione originale dei Four Seasons, il remake più conosciuto prima dell’avvento dei Maneskin era senz’altro quello della band norvegese MADCON, con sezioni rappate, pubblicato nel 2007.
Ascoltate i tre brani in sequenza, uno dopo l’altro: lo capirebbe anche un bambino delle Elementari che nel remake dei Maneskin non ci sono elementi innovativi, ma il loro adattamento rock è un furbo mix del pezzo dei Four Seasons e di quello di Madcon, cantato con una vocalità forzata, falsamente irrochita per simulare la stereotipata voce dell’hard-rocker che Damiano David, il cantante, impiega invariabilmente in tutti i pezzi del repertorio.
La versione cantata da Frankie Valli dei Four Seasons, un classico della soul music americana, è interpretata con registro appassionato e struggente e ha il suo punto di equilibrio nel controcanto tra voce solista e coro. Il testo, d’altronde, uno stereotipo della love song, giustifica tanto struggimento, essendo una lunga invocazione di un uomo alla donna che ama, non corrisposto:
“Allunga la tua mano amorevole, baby
ti sto implorando
Implorando, ti sto implorando
allunga la tua mano amorevole, baby
ti sto implorando, implorando
allunga la tua mano amorevole, baby
(...)
Sono in ginocchio mentre ti imploro
perché non voglio perderti
Ho le braccia aperte
e spero che il mio cuore venga nutrito
Lo vedi, ti sto implorando
Ho bisogno di capire
Ci ho provato così tanto
ad essere il tuo uomo
Il tipo di uomo che vuoi, alla fine
solo a quel punto potrò ricominciare a vivere
Ero un guscio vuoto
una volta
L'ombra della mia vita
pendeva su di me
Un uomo spezzato
senza nessuno
(...)
Ma continuo a camminare, continuo ad aprire porte
a sperare che la porta sia la tua
continuo anche a casa, perché non voglio vivere in una casa distrutta
Ragazza, ti sto implorando...”
Insomma, una dolorosa implorazione di un uomo disperato, che non sa più a quale santo votarsi per convincere la donna che ama a tornare con lui...
Come la rilettura in italiano di Maiocchi, anche una versione del 1968 rilanciata dai TIMEBOX (gruppo embrione dei Patto) ne restituisce un’interpretazione coerente, per quanto calligrafica, confermando la funzione del coro che risponde al solista. Un remake che correttamente trasmette la sentita disperazione del cantante innamorato, inducendo l’ascoltatore al transfert emotivo con il protagonista della canzone.
Una partecipazione emozionale che sembra sfumare già con la reinterpretazione dei Madcon del 2007, dove un’ottima produzione attualizza il pezzo coi suoni e lo stile interpretativo di quegli anni, rendendolo assolutamente avvincente soprattutto nelle parti rappate. Enfatizzando l'espressività ritmica e melodica dei suoni più che il significato del testo.
L’adattamento dei Maneskin, al contrario, è chiaramente conservativo, ma irrisolto: omette il controcanto del coro affidando l’interpretazione del testo alla sola voce solista, forzata nel registro roco tipico di certo hard-rock, tutto gutturale, che alterna cantato a veloce (velocissimo!) rappato senza tradire alcuna emozionalità ed empatia verso i significati delle parole che canta. Una voce che sembra isolata dal brano, persa in una lallazione autistica, incerta, come smarritasi nello spazio sonoro che intenderebbe occupare da protagonista.
E se è innegabile il buon lavoro della produzione, l’accompagnamento strumentale, nella scelta di alcuni stili esecutivi (soprattutto della batteria, a tratti suonata come nel liscio...), risulta quantomeno discutibile. Quanto alla struttura del pezzo, la “Beggin’” dei Maneskin sembra procedere a strappi, senza il naturale, logico fluire armonico di un pezzo popular: un primo salto logico avviene a 1:33, con un’improvvisa caduta della tensione dinamica definita fino a quel momento; a 2:13, dopo la seconda sezione rappata, il cantante è costretto a introdurre nel cantato l’intercalare “Mhh Ye-e-e-ah” per poter confluire naturalmente nel chorus; quindi, a 3:33 si ripete la caduta di tensione dell’inizio alla ripresa della strofa, poco prima della coda, decisamente affrettata e repentina.
Più in generale, la transizione da matrice soul a rilettura in stile rock (assolutamente legittima in linea di principio) non convince a partire dalla compenetrazione del gruppo nello ‘spazio emotivo’ del pezzo, che non può essere restituito con la semplice tecnica o l’energia esecutiva, ma deve essere ‘vissuto sulla pelle’, ‘sentito’, quindi ‘evocato’ (l’interprete come ‘medium’, appunto…). Un limite dovuto quasi certamente all’inesperienza dei musicisti, all’ignoranza di stili e forme della popular music.
E’ quindi giustificato tanto successo di pubblico e relativo clamore dei media? Certo che no, se non fosse che oggi l’immagine (la forma ) è tutto e la sostanza niente. E se la musica è banale, emulativa e confida sull’ignoranza e la pigrizia mentale dell’ascoltatore, il mix di moda, sregolatezza controllata (studiata), gossip e polemiche strumentali create ad arte (ad esempio, il presunto uso di droga all’Eurovision), che accompagna le apparizioni dei Maneskin nelle classifiche di mezzo mondo (e presto sui palchi dal vivo) è un potente, ammaliante analgesico per le menti già intorpidite dei giovani alle prese con l’aperitivo e lo sballo post-lockdown pandemico.
Ci sono dozzine di band in Italia che ricercano faticosamente strade alternative anche all’interno di un universo stanco e depresso come il rock ma non bucano lo schermo perché non interessate a (o solo incapaci di) confezionare il prodotto da vendere sulle piattaforme social e in TV. Un prodotto i cui ingredienti sono sempre più caratterizzati da banalità, superficialità e rassicurante ripetitività, venduto come fosse l’ultima delle novità a platee di ignari consumatori cresciuti all’oscuro del più recente passato.
E forse non è un caso che di Sex Pistols, come ben si sa, dal 1976 non ce ne sono più stati in circolazione...
Note:
[1] per un breve excursus sulla storia del brano si legga la pagina di Wikipedia https://en.wikipedia.org/wiki/Beggin%27
[2] in video su YouTube alla pagina https://www.youtube.com/watch?v=IbkI9y_zR8Q
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