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Immagine del redattoreLuca Chino Ferrari

Ma dove sta andando la musica...?

Aggiornamento: 30 ago 2021



E’ una questione che ricorre spesso tra gli appassionati come tra gli addetti ai lavori. Un conto, però, è cercare di capire dove vada la tecnologia, che è un mezzo della musica, che sono gli strumenti con cui viene composta, registrata e suonata; un conto è l’evoluzione dei medium con cui viene diffusa e ascoltata; un conto sono le forme, gli stili, i generi e sottogeneri…

Ci chiediamo dove va la musica perché implicitamente riconosciamo un valore all’assunto del filosofo francese Jacques Attali che in un suo celeberrimo saggio del 1978 intitolato semplicemente “Rumori” sosteneva che i suoni anticipassero le tendenze della società del futuro.

Nel paragrafo “La profezia”, scriveva: “La musica è profezia. Nei suoi stili e nella sua organizzazione economica, è in anticipo sul resto della società, perché esplora, in un dato codice, tutto il campo del possibile più in fretta di quanto possa farlo la realtà materiale. Fa ascoltare il mondo nuovo che, a poco a poco, diventerà visibile, s’imporrà, regolerà l’ordine delle cose; non è solo l’immagine delle cose, ma il superamento del quotidiano, e l’annuncio del loro avvenire”.(1)

Una visione evolutiva, quindi, la sua, per quanto non scontata. Perché la musica, in realtà, potrebbe non andare necessariamente da nessuna parte o per lo meno i suoi cambiamenti non avere delle ragioni di fondo, prevedibili secondo una visione ‘liquida’ della società e delle relazioni fra gli uomini.(2)

Dai suoni in circolazione oggi possiamo veramente capire come sarà la società domani? O è dalle evoluzioni tecnologiche che possiamo immaginare quali saranno i suoni del futuro, le forme e gli stili espressivi?

Quello che possiamo fare sicuramente, adottando un metodo empirico, è partire dall’osservazione del presente e relazionarlo a quanto è accaduto nel passato, ormai storicizzato.


Se ci limitiamo alla popular music, quella “galassia di generi e sottogeneri come rock, pop, blues, jazz...”(3) che ha a che vedere col mercato in quanto prodotto commerciale, sappiamo che forme e stili sono perennemente in mutazione ma tendenzialmente rielaborano il passato: nel grunge dei Nirvana (anni ‘90) troviamo ad esempio elementi del punk inglese della fine degli anni ‘70 e dell’hard rock degli inizi di quella decade (Led Zeppelin?), ma anche il suono dei gruppi Mod della prima metà degli anni Sessanta (Small Faces, Who…).


Più che le forme, gli stili, a me interessa da sempre come si evolve il medium, in particolare il supporto discografico. Dopo quasi 150 anni di reificazione del suono (4), siamo precipitati in un’epoca di polverizzazione dei supporti, che non esistono praticamente più, nonostante coesistano ancora, per quanto residuali, i dischi in vinile (sorprendentemente in ripresa nelle vendite) e i CD (al contrario, in caduta libera)(5). Forse troppo ragionevolmente immagino un futuro in cui i medium manterranno ancora un minimo di materialità, ma la prevalenza sarà quella attuale: musica da piattaforme web, scaricabile a pagamento e ascoltabile su cellulare o altri dispositivi sempre più leggeri e miniaturizzati. Uno scenario presente da tempo anche in Italia, come ha ben documentato un TG2 Dossier dello scorso 2 gennaio intitolato “La musica che verrà”, dedicato alle band e ai musicisti italiani dell’ultima generazione, che evidenzia luci e ombre di un cambiamento radicale nei modi della produzione, della promozione e della fruizione di musica soprattutto tra gli under 25.


Nei prossimi anni, dunque, è plausibile che le pratiche dell’ascolto siano le stesse di oggi, solo più esasperate: musica ovunque, pervasiva, indistinta, a sottofondo della vita reale, più vicina alla muzak (quella creata intenzionalmente per accompagnare le pratiche dell’acquisto) che alla musica vera e propria, funzionale/settoriale, magari abbinata ai cibi come esperienza sensoriale. La piena affermazione di quella “dissipazione sociale del suono” immaginata da Alessandro Carrera (6), secondo cui il suono è ovunque esprimendo oltre alla deleteria logica del consumo, anche una subcultura dello spreco.

Così, come per effetto di un impulso entropico, il discorso si frammenterà fino a disperdersi, la parola si ridurrà a fonema, a suono puro, perdendo il suo valore semantico… una rarefazione dei significati sociali/politici/filosofici e amore/sentimento/emozione saranno sempre più affidati al suono. Un suono sintetico, robotico, sempre meno naturale e umano.

Note:

(1) Jacques Attali, “Rumori” (Mazzotta, 1978), pag. 18;

(2) Marc Augé, “Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo” (Eleuthera, 2009);

(3) (a cura di) Roberto Favaro e Luigi Pestalozza, “Storia della Musica” (Nuova Carish, 1999), pag. 121: “Popular music è un termine omnicomprensivo che include tutte quelle esperienze estranee alla musica seria e alla musica di tradizione orale. In modo analogo a questi due grandi universi , la popular music non è un genere ma una galassia di generi e sottogeneri come rock, pop, blues, jazz, canzone, musica da film, gospel, tango, fado, enka, juju, reggae, disco (…). Tutti insieme costituiscono quell’universo sonoro che incide per circa il 90% sul mercato mondiale della musica registrata, le preferenze e i consumi a ogni latitudine.”;

(4) Evan Eisenberg, “L’angelo con il fonografo. Musica dischi e cultura da Aristotele a Zappa” (Instar Libri, 1997): “Nel 1877 la musica cominciò a diventare un oggetto. Il processo si compì in vari decenni, sia perché con i primi fonografi la resa del timbro era approssimativa sia perché Edison, dall’udito non perfetto, orientò la sua invenzione verso usi non esclusivamente musicali o del tutto amusicali (pag. 25). “La musica diventò un oggetto che ognuno poteva possedere individualmente e godere a proprio agio. Non c’era bisogno di cooperare, di coordinarsi o di condividerla con qualcun altro. Solo i musicisti erano ancora tecnicamente necessari, come – dato l’aspetto economico della produzione – il resto del pubblico. Ma solo tecnicamente. Con il possesso del disco entrambi scomparivano” (pag. 42);

(5) cfr. Billboard Italia dell’11 settembre 2020 alla pagina Web https://www.billboard.it/business/vinile-usa-riaa-mercato-discografico/2020/09/1141146/

(6) Alessandro Carrera in “La dissipazione sociale del suono. Verso un’ecologia della cultura”, da I Quaderni della Civica Scuola di Milano n. 11, 1985, citato in “Suoni In Scatola” di Paolo Prato, Costa & Nolan 1999, pag. 36.

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