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Immagine del redattoreLuca Chino Ferrari

LE "PORTE APERTE" DI UN FESTIVAL APERTE SOLO PER POCHI... Alcune riflessioni sul PAF di Cremona.

Aggiornamento: 30 ago 2021



Qualche giorno fa sono intervenuto sul portale CremonaSera in qualità di “ospite della redazione” con una riflessione sul PAF (Porte Aperte Festival) che si organizza a Cremona da sei edizioni.

Ho scritto quello che penso dei festival letterari, che cioè sono soltanto una parata commerciale finalizzata a dare visibilità a editori e autori e non aggiungono nulla in termini di promozione della lettura e della cultura in genere. Secondo un dispositivo deleterio tipico delle società occidentali globalizzate, la cultura diventa pretesto per fare spettacolo con il fine ultimo di vendere prodotti (che siano libri o altro…) a target già orientati, discriminando implicitamente quei cittadini che per varie ragioni (culturali, economiche, sociali, psicologiche…) ne sono esclusi. Su quanto sia perverso questo ‘non luogo dello spirito’ contemporaneo hanno scritto tanti fini intellettuali del Novecento, puntualmente inascoltati.

Un’idea come un’altra, la mia, neppure tanto originale, quindi, forse espressa con un registro e una forma poco immediata, un po’ involuta.

Ecco il testo integrale (la versione on line si trova all’indirizzo: https://www.cremonasera.it/ospite-in-redazione/il-paf-la-cultura-come-spettacolo-e-lo-spettacolo-come-cultura):


“Alcune brevi considerazioni in merito alla recente edizione del PAF e all’idea di cultura che promuove. Il PAF, festival letterario-vetrina di titoli più o meno di successo, inseriti in una cornice di significazione che li legittimi (quest’anno il tema era quello dell’“identità”…), presentati dagli autori ‘in persona’, conferma quel distonico corto circuito che rende legittimo intendere la cultura come spettacolo e lo spettacolo come cultura. Due termini che il mercato ha legato a filo doppio per vendere i suoi prodotti nella subdola dimensione dell’intrattenimento. Ma la lettura è dimensione dell’intimo, dialogo interiore fra sé e l’autore e le sue rappresentazioni, condizione esclusiva, unica, personale, non condivisibile, che sfugge per sua natura alla massificazione. Pratica che richiede tempo, concentrazione, fatica anche, e che muove da un deliberato atto di fede nei confronti dell’autore, nella sua identità altra, anonima, fantasmatica: ad esempio, lo scrittore del libro coincide sempre con la persona che l’ha scritto? “Il vero piacere del romanzo è tutto nella scoperta di questa intimità paradossale: l’autore e io...”, ha scritto Daniel Pennac in “Come un romanzo” nel 1993. “La solitudine della scrittura che invoca la resurrezione del testo attraverso la mia voce muta e solitaria”.

Nella loro inappellabile requisitoria contro la “società dello spettacolo”, l’hanno detto bene Pasolini e Debord sin dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. L’ha scritto in modo più accessibile ancora Pennac: “Prodotto di una società iperconsumistica, il libro è coccolato quasi quanto un pollo gonfiato agli ormoni e molto meno di un missile nucleare. Il pollo agli ormoni della crescita istantanea non è un paragone casuale se lo applichiamo al milione di libri “di circostanza” che vengono scritti in una settimana, con il pretesto che, quella settimana, la regina ha tirato le cuoia o il presidente ha perso il posto. Da questo punto di vista, quindi, il libro non è né più né meno che un oggetto di consumo, effimero come qualsiasi altro. Subito mandato al macero se “non funziona”, esso muore il più delle volte senza essere letto”.

Quando la cultura si fa spettacolo, mera rappresentazione, e il libro solo un prodotto da vendere, si rompe l’alchimia imperscrutabile del rapporto profondo tra lettore e scrittore, compressi nell’asfissiante logica del consumo, della contemplazione della realtà. Sempre Debord, fulminante, ha scritto: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”.

E’ triste che nel 2021 anche Cremona, sedicente città della cultura e dell’arte, perpetri questa idea degenerata, antipopolare, in cui tautologicamente il medium, tra un autografo e un selfie dello scrittore con i suoi fan, finisce per equivalere al messaggio”.


Non mi aspettavo alcuna reazione, abituato come sono da anni a Cremona alla mancanza di volontà a un confronto che non sia nelle chiuse “stanze del potere”, dove i decisori decidono, appunto, delle politiche culturali della città, ignari di quanto accade nella realtà.

Ma mi sbagliavo, perché almeno per una volta una reazione il mio scritto l’ha stimolata. Eccola:


“E’ triste soprattutto che un sedicente giornalista recensisca un Festival nel quale non ha messo piede una sola volta in 6 anni...”.


L’ha firmata Marco Turati, uno degli organizzatori del festival.

Ho risposto così:

“Constato con amarezza che ancora una volta quello che ti manca è lo stile, caro Turati, avvezzo da settario quale sei ad attacchi personali di dubbio gusto che mirano a delegittimare la persona e a non entrare nel merito delle sue idee che prescindono dal partecipare o meno al festival perché si limitano a criticarne le logiche di fondo (se hai inteso quanto ho scritto). D’altro canto, come ha cantato il grande Bob Dylan, “non hai bisogno del meteorologo per sapere da dove tira il vento”...”.


Beh, mi sono solo difeso, perché trovo davvero insopportabile e inutile questo modo di “confrontarsi”, purtroppo diffuso in questi tempi di imperanti social media. Nel commento di Turati, tra l’altro, ci sono almeno tre sviste ingenue:

1. chi mi conosce e mi ha seguito in tutti questi anni sa che non mi sono mai definito “giornalista” semplicemente perché non lo sono. Ho sempre preferito “scrittore” e in anni recenti, pubblicando in inglese per il mercato anglofono, l’accezione “music writer”. Non mi dispiace neanche considerarmi uno “storico della popular music”;

2. quella pubblicata da CremonaSera non è una “recensione” del Festival ma semplicemente un intervento, una riflessione personale inviata alla redazione da semplice cittadino ‘pensante’ (tanto che, firmandola, non ho ritenuto di dover aggiungere altro);

3. non vado da sei anni al PAF proprio per le ragioni espresse. Non mi interessa la formula, non mi interessa il programma. Da operatore da anni in ambito musicale (con buona pace del Turati), ho gusti precisi, radicati, e se devo ‘intrattenermi’ scelgo quello che mi interessa (non ho mai amato lo ‘zapping’ culturale, per intenderci…), a prescindere dal fatto che si organizzi o meno nella città in cui abito.


Comunque sia, la mia non voleva essere una mera provocazione, ma semplicemente una riflessione sul tema delle politiche culturali di questa città, sempre più lontane dall’ideale – gramsciano, pasoliniano, di don Milani... – di cultura popolare in cui credo da sempre.

L’esperienza del PAF, diventata purtroppo espressione di punta delle politiche culturali di questa amministrazione, mi sembra che esprima inequivocabilmente l’idea che le istituzioni pubbliche hanno di questa città e dei suoi cittadini: nessun interesse per una visione dal basso della comunità (espressione abusata dallo stesso sindaco); una rappresentazione cristallizzata della realtà – settaria, elitaria, preconcetta, fondamentalmente falsa – refrattaria alle critiche e al dissenso, anche quando espresso rispettosamente; una resa definitiva alle logiche dello “spettacolo” (ma mentre non può esistere spettacolo senza cultura, può benissimo esistere la cultura senza spettacolo...) e del Mercato che oggi tutto permea e inghiotte; una programmazione culturale affidata a un gruppo di “amici degli amici”, secondo una visione provinciale e clientelare ben lungi dall’essere costruzione di senso collettivo, espressione autentica di un territorio.


Come non bastasse, anche un altro organizzatore del festival, Michele Ginevra, ha preso la parola con l’intento di ribadire le ragioni del PAF e confutare le mie idee. L'effetto, come si dice, però, quello di “una pezza peggio del buco”...:

“Caro Luca, entriamo nel merito delle tue idee: il tuo intervento non ha nulla a che vedere con il festival. I libri venduti e i relativi firmacopie non solo non hanno caratterizzato tutti gli eventi (che non sono solo letterari, tra l'altro...!), ma soprattutto non sono la ragione d'essere della manifestazione. La loro disponibilità fa piacere al pubblico che apprezza la possibilità di poterli acquistare in queste occasioni. Quindi... fai un discorso che può essere interessante da approfondire, ma che nulla c'entra con il Paf. Anzi... appare piuttosto surreale”.


Non potevo che rispondere così, deluso ancora una volta dal tenore dell’intervento:

“Surreale a me sembra la tua risposta, che anziché entrare come premette nel merito delle idee da me espresse, riafferma tautologicamente le ragioni del PAF sostenendo che quello che ho scritto non c'entra nulla. Quello che noto e che mi dispiace, invece, è che tu e Turati sembra non abbiate argomenti solidi per difendere le vostre scelte. A questo punto avreste fatto meglio a ignorare la mia riflessione, dal momento che oltre alla idee sembra vi manchi anche la volontà al confronto”.


MA ENTRIAMO NEL MERITO DELLE MIE IDEE...

Dal momento che un paio di amici hanno sostenuto che il mio intervento fosse poco chiaro e sembrasse più una provocazione che l’espressione della volontà di un confronto; dal momento che, a essere generosi, i due baldi promoter del PAF sembrano non aver colto le mie modeste riflessioni, cercherò qui di chiarire meglio le mie idee.

Il PAF non è un festival letterario, come precisa Ginevra, e questo è evidente; ma se su 41 ‘eventi’ in programma la metà riguarda presentazioni di libri con i loro autori, mi pare innegabile che la natura di ‘festival letterario’ sia se non prevalente, per lo meno evidente (quindi innegabile).

Ed è su questa dimensione che ho concentrato le mie critiche, dal momento che gli altri eventi (per lo più mostre e concerti), rientrano nelle consuete routine culturali basate sull’idea di spettacolo (per cui è legittimo, semmai, avanzare critiche sulla scelta del programma ma non sulle idea-base dell’evento).


Come documenta efficacemente Giorgio Zanchini nell’inchiesta intitolata "I festival letterari. Luci e ombre di un successo", pubblicata nel gennaio 2020 sul n. 6 della rivista “Vita e Pensiero”, i festival letterari sono ormai una moda consolidata, con una diffusione nel nostro Paese che non ha pari in Europa. Insomma, non c’è realtà grande o piccola che non abbia il suo festival, basato sulla classica presentazione di libri e autori. Una formula vincente a giudicare dalla partecipazione di pubblico, ma non priva di ombre.


Scrive Zanchini: "Tutto bene dunque? Sì e no. Sì, senz’altro, se si ragiona all’interno della comunità che frequenta questi luoghi, che trova occasioni e opportunità, si ritrova, cresce. No, se ci si spinge su un territorio differente, quello dei più generali consumi culturali italiani, in particolare sulla lettura, sulle librerie, sui libri venduti. I dati, inutile ripeterli, sono sconfortanti. E allora resta attuale il sasso nello stagno lanciato qualche anno fa da Giuseppe Laterza: benissimo questo proliferare di festival culturali, questa bella aggregazione, ma allora perché non si riesce ad allargare il bacino dei lettori, si vendono pochi libri e pochissimi giornali, e le librerie chiudono, in qualche caso persino nelle città o cittadine nelle quali si svolgono festival letterari di successo? Domande inaggirabili, che possono suggerire una risposta: i numeri sono buoni, ma resta un fenomeno di minoranze, minoranze virtuose, ennesimo volto dell’eterno deficit culturale italiano, che ritroviamo in tutte le ricerche e i numeri sui consumi culturali del nostro Paese. Che in altre parole siano contesti in cui si predica ai convertiti. Si arricchiscono i benestanti. L’analisi sull’impatto economico dei festival non è che sia più pacifica. Non è semplice calcolare le ricadute sul territorio, gli strumenti di misurazione non sono condivisi, i dati forniti dagli organizzatori e dai vari attori sul territorio sono spesso poco affidabili. C’è in altre parole una debole cultura della valutazione". [1]


Da questo punto di vista, dunque, è difficile capire che ricadute economiche reali abbiano questi festival. Zanchini la mette così: "Chi ha lavorato molto su questi temi è Guido Guerzoni – sua l’espressione Effetto Festival –, da oltre dieci anni, ed è lui stesso a invitarci alla prudenza. In questa sede è utile riportare ciò che la letteratura suggerisce per la riuscita di un festival. I festival riusciti – è un punto abbastanza condiviso – sono quelli che negli anni sono stati capaci di consolidare una base di partecipazione, volontariato e sostegno da parte della popolazione locale, mentre sono numerosi i casi di fallimento di progetti editoriali calati dall’alto, privi di radici territoriali. Non a caso la ricerca mostra come non ci sia correlazione tra budget e impatto economico. Ci sono infatti festival che hanno investito molto senza riuscire ad attirare pubblico, con un rapporto costi/benefici negativo. C’è chi invece è riuscito ad attivare multipli molto alti, sino a 8-9 volte per euro investito, anche senza grandi investimenti. I prodotti editoriali maturi hanno insistito sulla qualità dei palinsesti, consapevoli che la fase di assestamento di un festival coincide con il suo settimo-ottavo anno di vita, registrando un’adesione da un anno all’altro del 90-95%. Dalle ricerche si scopre che in Italia ci sono rassegne di grande qualità e successo con budget limitati – 100-150 mila euro – perché il lavoro volontario pesa per l’80%. Una struttura di professionisti a tempo pieno, per tutto l’anno, sembra però un elemento essenziale per far sì che il sistema regga nel lungo periodo. Quanto alle forme di finanziamento gli ultimi dati utili ci dicono che il contributo delle fondazioni di origine bancaria nel finanziamento dei loro territori di riferimento è alto: il 62% dei festival analizzati ricevono le loro sovvenzioni. Altri contributi (27%) vengono erogati anche da fondazioni di altra origine, tra cui le fondazioni di partecipazione, e le associazioni il 19%. Quanto al numero di visitatori, al di là dei numeri dei grandi festival, citati poco fa, non è semplice arrivare a dati certi, soprattutto perché nella maggioranza dei casi l’ingresso è gratuito. In media siamo attorno alle 50 mila presenze. Si diceva poco fa della difficoltà di accordarsi sugli strumenti di misurazione, di calcolare le spese in alimentazione, pernottamenti, trasporti, acquisti, in ciò che in altre parole resta sul territorio. La ricerca da qualche anno a questa parte si sta concentrando anche sul tema del valore economico della comunicazione che un festival genera, e tra gli esempi positivi si cita il numero di giornalisti internazionali accreditati a Mantova, Pordenone, Perugia, Sarzana. Se si parla molto di un luogo la gente prima o poi arriva".


Conclude l'inchiesta Zanchini: "C’è un ultimo aspetto da segnalare. E non trascurabile. Ciò che i festival significano per editori e scrittori. In questo caso l’impatto varia molto, e dipende dalla notorietà del festival e dall’affluenza di pubblico. Sono però obiettivi market movers, specie se si pensa al complessivo sistema dei festival. I festival sono divenuti assieme ai social media e ai social network – non proprio secondari... – la vera novità del lancio editoriale di oggi. Sino a qualche decennio fa la promozione di un libro passava soprattutto attraverso il ristretto e selettivo imbuto delle recensioni su carta stampata. Oggi è tutto diverso. Sia per la crescente centralità dei media audiovisivi, sia per il prepotente affermarsi dei cosiddetti new media figli della rivoluzione digitale. Accanto a quest’ultimi in anni recenti hanno preso forza gli incontri, le presentazioni, le file per le copie firmate, forme anche criticabili di personalizzazione e in qualche caso divismo. Fatto sta che editori e scrittori continuano a frequentare questi circuiti. Gli scrittori sono anzi protagonisti di vere e proprie tournée, che prevedono spesso decine e in qualche caso centinaia di incontri, anche non propriamente letterari – infinite sono le strade della promozione... con il rischio che il libro si riduca a mero pretesto – e all’interno di questa corona i festival, specie quelli che si sono citati in precedenza, rivestono un ruolo molto importante e ambito. Fanno vendere libri, incrementano il passaparola, permettono talvolta incontri tra autore e lettore che non dico possano cambiare la vita ma forse accendere qualche scintilla. L’importante, mi pare, è che il libro resti l’oggetto centrale degli incontri e della riflessione, e la lettura non venga sovrastata dall’apparato circostante e dal versante spettacolare e conviviale. Non è un caso che spesso negli Stati Uniti per partecipare alle presentazioni occorra prima comprare il libro, e si suggerisca a chi vuole fare una domanda al termine della presentazione di essere asciutto e mettere un punto interrogativo al termine della frase".


E' soprattutto quest'ultimo l'aspetto su cui ho voluto focalizzare il mio intervento su CremonaSera: la relazione tra autori/editori e festival letterario, ormai evidentemente strumento di promozione e vendita. Ma questo ha a che vedere più con il marketing editoriale che con la promozione culturale.


Io su questa dimensione continuo a pensarla come Paul Freire e Don Milani [2], che guardavano alla cultura come allo strumento di affrancamento degli "oppressi" dalla logiche di controllo e sfruttamento del potere, oggi più che mai incarnato in un compiacente e amorale consumismo globalizzato. Cittadini consapevoli di queste implicazioni dovrebbero reclamare alle istituzioni pubbliche la promozione di manifestazioni ispirate a principi di pari opportunità, equità, bene comune, affinché l'abusato motto "perché nessuno rimanga indietro", che tanto piace ripetere al centrosinistra italiano, non sia soltanto un vuoto, stucchevole, perbenista e autocompiacente slogan elettorale.



INVESTIRE IN UN PROCESSO DI NUOVA ALFABETIZZAZIONE DEMOCRATICA

Per contrastare l'egemonia dei social media, per molti ormai l'unica fonte di conoscenza della realtà, e del Mercato, penso che serva altro che una parata di autori più o meno 'criticamente' presentati (a mo' di salotto bene) per fare promozione culturale. Occorre investire nel lungo e capillare, faticoso, lavoro quotidiano nelle scuole (con laboratori di costruzione del libro, animazioni di testi...); nelle biblioteche di quartiere o di condominio; iniziative di scambio di libri; nell'implementazione dell'esperienza del book-crossing negli angoli della città; nella promozione di gruppi/associazioni di lettura nei quartieri periferici, nelle piazze decentrate, nei condomini più degradati; nell'allestimento di reading poetico-letterari 'spontanei' (tipo speakers corner di Hyde Park, a Londra), dove chiunque possa salire su un palchetto e leggere quello che gli pare; nella riconversione di spazi pubblici dismessi o degradati per aprire centri culturali, laboratori, atelier gratuiti in cui tutti (non solo l'artista, il VIP di turno, il formatore....) possano accedere liberamente...


Chiedo: da questo punto di vista, cosa hanno lasciato le sei edizioni del PAF? Perché i 60.000 euro di questa edizione non potevano essere investiti nell'avviare qualcosa di permanente, strutturale al servizio della cultura della città tutta? Perché continuare con la logica dell'evento acchiappa-turismo di massa anziché concentrare le risorse economiche, umane, professionali esistenti in città per migliorare la cultura del cittadino medio agendo sui luoghi di lavoro e di vita delle persone?



CONCLUSIONE A DIR POCO AMARA...

Che a Cremona non ci siano spazi reali di confronto lo so da anni e non ho molte speranze che la situazione possa cambiare. Che gli operatori culturali della città fatichino a comprendere ragioni altre rispetto alle loro, è comprensibile, considerato il clima da ‘pensiero unico’ che aleggia in città da tempo. Meno comprendo, e questa evidenza mi sconcerta, che nessuno ritenga di dover prendere la parola ed esprimere sul tema le proprie opinioni.

Ho ricevuto molte attestazioni di stima e condivisione, ma avverto il timore di esporsi, di esprimere le proprie opinioni.

Mi dicono di una pagina Facebook ufficiale in cui il PAF “se la canta e se la suona” e dove le pochissimi critiche (più che altro relative al livello tecnico dei conduttori delle varie presentazioni) sono state brutalmente soffocate (sembra in "stile turatiano”), ma non mi sembra che in questa città qualcuno abbia l’ardire, come ho fatto, di articolare un discorso…



Note:


[2] significativi soprattutto "La pedagogia degli oppressi" di Freire (1970) e "Lettere a una professoressa" di Don Milani (1967).


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