Dal 1998 aveva lasciato improvvisamente l'industria discografica dopo uno straordinario primo album da solista intitolato semplicemente "Mark Hollis". Nelle rarissime interviste che seguirono si era limitato a spiegare che aveva scelto di dedicarsi a tempo pieno alla famiglia, un'occupazione a suo dire inconciliabile con quella del musicista.
Ma a chi aveva seguito sin dalla fine degli anni Settanta la sua ascesa al successo con i Talk Talk di "It's my life", tormentone pop radiofonico del 1984, e la seguente, inattesa virata verso un post-rock innovativo, venato di jazz e di composizione colta ("canterburiana" la definì impropriamente un giornalista inglese), l'ammissione suonò da subito come una scusa.
Perché dopo "Spirit of Eden" (1988) e "Laughing Stock" (1991), che aveva segnato la fine dei Talk Talk, era parso chiaro che non si potesse andare oltre, a meno di ripetersi. Il rock con Hollis aveva raggiunto territori fino ad allora inesplorati, causando sconcerto e vertigine, suscitando ammirazione. Era come arrivare in fondo al mondo e trovarci solo un precipizio...
Hollis avrebbe composto in seguito solo piccoli camei per colonne sonore o dischi di altri artisti, una manciata di minuti in tutto che non tradivano alcuna volontà di un ritorno sulle scene.
Ieri se ne è andato dopo una breve malattia a 64 anni, benché fosse praticamente assente da vent'anni.
Lascia un'eredità di suoni unici, di un'intensità dolorosa e inconsolabile; un'idea di musica viscerale, ancestrale, idiosincratica, dal carattere perturbante che ha ispirato molte esperienze seguenti, pur nella polverizzazione di forme dell'era digitale.
(Un bel ricordo di Rob Young sulle pagine on line di "The Wire" cliccando qui)