Andrebbe letto sommessamente, con la concentrazione di un fedele alla messa, e in sottofondo la “Kammermusik” di Henry Purcell eseguita dall’Heidelberger Barockensemble, questo piccolo libro che raccoglie alcuni scritti di Pier Paolo Pasolini dedicati al vecchio e nuovo fascismo.
“Il fascismo degli antifascisti”, pubblicato da Garzanti alla fine dello scorso anno (pagg. 94, euro 4,90), raccoglie articoli scritti dal 1962 al 1975 apparsi sul “Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Paese Sera”, “Vie Nuove” su uno dei luoghi più impervi tra quelli frequentati dal più importante e controverso intellettuale italiano del Dopoguerra, tornato in questi mesi di tragica attualità.
La tesi di Pasolini è semplice quanto efficace: il fascismo ‘storico’, quello del Ventennio mussoliniano, si è rivelato una grottesca parata di maschere che non ha inciso nel profondo del popolo italiano, modificandone la coscienza collettiva. A questo fascismo archeologico, in origine "umile manovalanza del padronato", quindi "bieca mascherata assassina", è seguito un fascismo istituzionale, a matrice democristiana, affermatosi con l'avvento del regime repubblicano, mandante delle stragi eversive inaugurate con la bomba di piazza Fontana. Un fascismo erede di quello mussoliniano per "la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione".
"In tale universo", scrive nel '75, "i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle elites che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo che durante la prima fase del regime democristiano".
Ma il vero fascismo, quello totalitario, violento e aggressivo, che Pasolini fa risalire agli inizi degli anni Settanta, è in realtà rappresentato dalla "società dei consumi", che ha omologato identità, linguaggio, comportamenti, sistema dei valori incidendosi nel profondo della coscienza degli italiani. Un fascismo fattuale che ha annullato i particolarismi locali, violentato il paesaggio urbano e rurale, annientato le differenze di ceto, condizionato l'immaginario collettivo.
Una condizione tragica e irreversibile che lo scrittore osserva impotente e denuncia soprattutto negli ultimi anni della sua vita (memorabile l'articolo sulla scomparsa delle lucciole pubblicato il primo febbraio 1975 dal “Corriere della Sera”) con la forza profetica e apocalittica del visionario che ha saputo anticipare i tempi che viviamo in cui si è consumata in Italia (e per esteso in Occidente) una vera e propria “rivoluzione antropologica”.
Quella che vede oggi al governo del Paese delle maschere paleofasciste à la Salvini (le divise ostentate, il linguaggio da bar, lo slogan/parola d’ordine per interpretare la complessità dei fenomeni sociali, il richiamo alla triade perniciosa “dio, patria e famiglia”…), inconsapevoli di essere solo un effetto grottesco del fascismo globale dei mercati e del pensiero unico dell'alta finanza internazionale.
“L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo”, scrive Pasolini. “Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società”.
(da “Vie Nuove”, 6 settembre 1962)